PREDATOR SENZA GLORIA
3
«
Ta-ta-ta-ta-ta-ta.»
Tutti ridevano sempre quando Jungle si esibiva nella sua imitazione di una mitragliatrice a pieno regime, forse perché la maggior parte degli ascoltatori non ne aveva mai vista una umana rivolta verso di loro.
«Centinaia di colpi in rapida sequenza, la foresta fu inondata di piombo: quei coglioni però stavano sparando dalla parte sbagliata!» Tutti risero, emettendo suoni gracchianti e dandosi pacche sulle spalle. Una reazione esagerata, visto che non era certo la prima volta che Jungle raccontava quella storia.
«Io ero lì che mi godevo lo spettacolo, e mi domandavo come avessero fatto gli umani a sopravvivere alla propria stupidità.» Mentre parlava, curava il maialino che si arrostiva lentamente sullo spiedo. «Ad un certo punto, giuro, mi sono chiesto se avesse senso continuare la caccia: era come appostarsi per schiacciare una formica. Che onore c’era?»
Mentre tutti annuivano, Jungle continuava a cucinare con mosse sapienti il piatto per cui era famoso: maialino arrosto. La cucina yautja era di una semplicità totale, e non c’è niente di più difficile di un piatto semplice. «Insomma ero lì che sghignazzavo mentre questi beoti davano fondo alle loro munizioni sparando alle foglie, e devo essermi graffiato con qualche ramo, perché ho lasciato qualche goccia di sangue in giro. Il più stupido degli umani vede quel sangue e, con una faccia da scemo e due occhi sgranati, aspetta che cali il silenzio per dire la frase della sua vita: “Se può sanguinare, può essere ucciso”.»
Tutti nel locale avevano già sentito almeno una volta quella storia, eppure scoppiarono lo stesso in una fragorosa risata. In fondo erano tutti lì per dimenticare la propria vita e tirarsi su di morale: poco importava la qualità dell’intrattenimento.
Mentre Jungle gongolava e continuava a rosolare il suo maialino, Machiko si sporse verso Achab. «Come mai ogni volta che racconta questa storia si dimentica di dire che gli “stupidi umani” l’hanno battuto? Che ha dovuto inscenare la sua morte con una esplosione per darsela a gambe alla chetichella...»
Achab grugnì e agitò una mano in aria. «Ci mancherebbe solo quello, così ci deprimiamo tutti.»
Machiko approfittò di quel momento in cui nessuno badava a loro. Erano tutti seduti rivolti verso il maialino che si arrostiva – uno spettacolo che ha sempre il suo fascino – così la donna si sporse ancora di più verso il suo amico. «Sono contento che hai... ehm...
battezzato quel giovane: è un bravo ragazzo ma ha bisogno di aiuto.» Achab grugnì, ma Machiko non gli diede modo di rispondere. «Non è ancora riuscito a trovare un suo equilibrio con gli umani, avrebbe bisogno di una figura autoritaria che gli desse forza, che lo guidasse...»
«Machiko», esclamò Achab voltandosi a fissarla, «stai per caso chiedendomi di assumerlo?»
La donna si era preparata un discorso molto più lungo, ma a questo punto era costretta a giungere a conclusione. «Ti ringrazio, sapevo di poter contare su di te.»
«Mi ringrazi di cosa? Non ho alcuna intenzione di assumere un tizio problematico, ex (forse) alcolizzato: non solo gestisco un bar, e già questo sarebbe un problema con lui, ma un sacco di roba che deve rimanere segreta. Non posso mettermi in casa il primo che passa.»
«Garantisco io per lui», tentò ancora la donna.
Achab la fissò, poi fece passare il suo grande braccio attorno al corpo della donna, premendo troppo sul suo fisico umano. «Machiko, non puoi salvarli tutti... Anzi, non puoi
salvarci tutti, visto che considero più Yautja te che tanti miei simili. Ho grande stima per il tuo lavoro e se un giorno ci sarà la rivoluzione saresti l’unico essere umano a cui non strapperei la spina dorsale, e proprio in nome di questa grande stima te lo ripeto: non puoi salvarli tutti, soprattutto se non vogliono essere salvati.»
Erano tutti discorsi che Machiko aveva già sentito, visto che lei stessa se li ripeteva in testa da anni. Non aveva una risposta ragionevole da opporre a questo ragionamento. «Se riuscissi a farlo passare per suicidio, sparerei loro in testa, così smetterebbero di soffrire e riavrebbero il loro onore.»
Achab esplose in una sonora risata, che Jungle pensò generata dal suo racconto. «
Questa è un’idea geniale, Machiko: invece di un ufficio di collocamento dovresti aprire un ufficio di omicidi d’onore!»
Mentre lo Yautja gongolava e rideva, stritolandola nel suo abbraccio, la donna aveva un sorriso amaro sul volto. «Quindi lo lasciamo al suo destino?»
Achab la guardò. «Chi?»
«Quello che hai appena battezzato Scar.»
Lo Yautja agitò una mano in aria. «Quello che riconosco agli umani è di essere tenaci: se non riuscite ad affrontare una montagna, la sgretolate a forza di rimbrotti scoccianti.»
Machiko sorrise e diede dei pugni fra le costole dell’amico: aveva scoperto che era preso come un gesto confidenziale, visto che i suoi pugnetti non facevano neanche il solletico al muscoloso costato dello Yautja. «E quello che riconosco a voi Yautja è di avere un cuore più grande del vostro brutto muso: fate le facce dure ma siete dei teneroni.»
Achab gracchiò. «Tenerone? Io? Quest’offesa te la farò lavare col sangue!» E sollevò la donna fingendo di strozzarla. Mentre i due si divertivano a mimare una lotta inter-specie, gli altri Yautja del locale li guardavano con occhi torvi. Non era dignitoso il comportamento di Achab, visto che stava facendo per finta qualcosa che avrebbe dovuto fare sul serio – cioè uccidere umani a mani nude – ma alla fine quelle strane effusioni venivano prese come se lo Yautja stesse giocando con un animale domestico.
«Piantatela, voi due», gracchiò Jungle, «e datemi una mano con i piatti: la cena è pronta.»
Achab e Machiko si separarono e si alzarono. «Tanto non mi hai convinto», bofonchiò lo Yautja.
La tavolata era rozza e i partecipanti erano più del previsto. All’inizio doveva essere una serata fra amici, qualcosa per pochi intimi, poi la voce si era sparsa e si erano presentati gli amici degli amici. A Jungle piaceva cucinare – o almeno quel poco che per la sua cultura era considerato “cucinare” – e non aveva problemi a rimediare più provviste del preventivato. Da anni lavorava in un grande mattatoio, dove poteva continuare a provare l’emozione di uccidere esseri viventi, ed era molto apprezzato dai proprietari umani: spesso gli lasciavano portar via un paio di animali, come “premio di produzione”. Jungle poi usava i sotterranei del locale di Achab per trattarli e organizzava cenette fra amici.
Stavolta l’ampia sala del locale era piena di Yautja, molti dei quali non aveva mai visto prima, ma poco importava: di carne ce n’era e la confusione avrebbe aiutato a distrarsi.
Achab non era contentissimo di questa “invasione”, soprattutto perché essendo una cena tra amici nessuno pagava, ma con il combattimento di quella sera Berserker gli aveva fatto guadagnare parecchio e quindi stavolta poteva lasciarla passare: la prossima volta però si sarebbero fatti inviti precisi.
Una volta che ognuno ebbe preso posto ad un tavolo – erano troppi per un’unica tavolata – tutti si rivolsero al proprietario: toccava a lui l’onore del brindisi.
Achab alzò il suo calice come fecero gli altri, compreso Scar che in realtà stava già per iniziare a bere quando Machiko gli fece un brusco segno: doveva aspettare il brindisi. Achab fissò la parete dietro il bancone del suo bar, la parete che tutti nella sala potevano vedere, e dove tutti quelli che conoscevano l’usanza del locale avevano avuto accesso. Sin dal primo giorno Achab infatti aveva chiesto agli Yautja che aveva conosciuto di scrivere sulla parete il nome del loro vecchio clan, e da allora tanti avevano tenuto fede alla consuetudine: ora la parete era un unico, enorme affresco di nomi di clan, centinaia e centinaia di nomi provenienti da ogni angolo della galassia.
«A tutti i nostri clan», disse Achab con voce tuonante. «E a tutti i guerrieri che abbiamo fatto morire per la nostra vigliaccheria...» E, dopo qualche attimo di silenzio tesissimo, finì: «che un giorno possano tutti perdonarci.» E mandò giù d’un sorso il contenuto del bicchiere, seguito da tutti gli altri.
Qualcuno spezzò il momento di tristezza con una voce sgradevole. Quando gli venne chiesto di ripetere, lo Yautja gracchiò: «Perché quell’umana ha brindato con noi? Questo è il
nostro brindisi, che c’entra lei?»
Ecco qual era il problema ad organizzare una festa “aperta” agli amici degli amici. Achab si voltò verso chi aveva parlato e continuò ad usare la stessa voce potente di un attimo prima, agitando il bicchiere vuoto in aria. «Machiko Noguchi è un’umana solamente nella forma, perché lei è Yautja a tutti gli effetti. Ha avuto il suo First Blood, ha affrontato una Regina Aliena, ha combattuto al fianco del maestro Duchande e da lui in persona ha ricevuto il marchio che porta sulla fronte.» Ed indicò il simbolo del clan che la donna aveva inciso sulla pelle grazie al sangue acido d’alieno. «Machiko è una guerriera più valorosa di molti in questa stanza, quindi non voglio più sentire una sola parola in proposito. Se non vi piace dividere il vostro pasto con un’umana, siete liberi di andarvene: nessuno vi tratterrà.»
Il silenziò che seguì nascondeva una domanda che tutti i nuovi del locale si stavano ponendo, una domanda con cui Machiko aveva da tempo fatto i conti e trovato un equilibrio. Così si alzò e parlò a voce chiara. «Per due volte mi sono unita ai Blooded Warrior Yautja in una missione contro gli xenomorfi e per due volte... ho scelto di parteggiare per la mia razza. La prima volta sono stata perdonata da un Elder perché ero necessaria in una missione di vitale importanza, ma la seconda ha significato per me il disonore e l’allontanamento.» Si guardò in giro con sguardo fiero. «Vorrei vedere in faccia uno di voi che parteggiasse per una razza diversa dalla propria: solo lui potrebbe criticare la mia scelta. Per il resto, io non provo alcun disonore né vergogna: sono stata marchiata da Duchande, il miglior guerriero Yautja della sua generazione, e tanto mi basta a sentirmi una Blooded Warrior, al di là che non sia riconosciuto a livello ufficiale.»
Machiko fece un cenno al giovane Yautja accanto a lui. «Oggi il mio amico Scar è stato marchiato da un altro grande guerriero, Achab, e spero che anche lui abbia capito quanto questo sia importante.»
«Se avete finito di blaterare», intervenne Jungle, «qui la cena si sta freddando.»
Tutti risero e iniziarono a mangiare, salvando il giovane Scar dal problema di gestire i sentimenti che stava provando: quello era il giorno più felice da quando era stato scacciato dal suo clan, ricoperto di vergogna, e questo non è mai una buona cosa, per un ex alcolizzato... Perché ora aveva una dannata voglia di festeggiare con dell’alcol...
~
Scar si svegliò di colpo, tirando su di scatto la testa dal piatto dov’era appoggiata. La carne era stata ottima ma l’alcol era davvero roba dozzinale: probabilmente Achab aveva offerto il peggio della sua cantina.
La testa gli doleva, e non solo per la ferita ancora fresca. Aveva bevuto quel minimo indispensabile perché fosse inutile, da avere cioè solo gli aspetti negativi dell’alcol, senza poter godere di quelli positivi. Si girò attorno e tutti gli altri invitati dormivano chini sui tavoli o stravaccati da qualche parte. Non era stata una festa così divertente, ma il pessimo alcol l’aveva fatta finire presto.
Scar si alzò lentamente e da un rapido sguardo capì che mancavano solo Achab e Machiko: se l’aspettava. Quei due se la intendevano troppo, altro che semplici amici... Meglio per lui, perché così erano tutti distratti: era il momento giusto per cercare qualcosa di buono da bere. Ora aveva un nome di battaglia, cazzo: era Scar, e questo meritava una bevuta. Una
buona bevuta.
Non conosceva il locale, quindi lentamente iniziò ad esplorarlo senza fare rumore. Altri guerrieri avevano imparato la furtività sul terreno di caccia: lui l’aveva imparata a forza di rubare qua e là. Così come aveva imparato a muoversi rapidamente nei posti sconosciuti.
In poco tempo trovò l’accesso ai sotterranei, dove sicuramente Achab conservava la “roba buona”, e scese in silenzio. Si aggirò per qualche secondo prima di vedere una luce che proveniva da dietro l’angolo di una porta. La curiosità lo portò ad avvicinarsi, finché Scar si appoggiò alla parete per ascoltare di nascosto le voci che sentiva provenire dalla stanza: bastò poco per riconoscerle.
«Oggi posso usare la spada vera?» stava dicendo Achab. «Ne ho davvero bisogno: è stata una di quelle giornate che...»
«Non mi importa», lo fermò bruscamente Machiko. «Quando siamo sul
dojo non esistono “giornate” né altro: devi svuotare la mente. Ti ho già parlato del
mushin, della “mente vuota”.»
Scar cedette alla curiosità e si affacciò lentamente. Vide un’ampia sala vuota, con al centro Achab e Machiko accucciati sulle proprie ginocchia, uno di fronte all’altro. Davanti a loro, in terra, quelli che sembravano due bastoni di legno.
«Va bene, va bene», stava dicendo Achab. «Però se potessi sfogarmi un po’ riuscirei molto meglio a svuotarmi la mente.»
Machiko scosse la testa. «Non sei qua per “sfogarti”, sei qui per meditare. E per annullarti. Non è in fondo il nostro sogno, l’annullamento totale?»
«Veramente io speravo di riuscire ad imparare l’uso della katana», sbuffò lo Yautja. «E finora la tua neanche l’ho mai vista: figuriamoci imparare ad usarla.»
La donna lo fissava molto seria. «La mia spada non è adatta allo studio. La sua lama è quella che ha aperto la gola di mio padre, quando si è suicidato dopo un crollo in borsa: il suo gesto ha salvato la famiglia dal disonore e dalla vergogna. Quando quella lama uscirà dal fodero... sarà per aprire la mia, di gola, e riportare l’onore nella mia famiglia. In
tutte le mie famiglie. Solo allora sarò ricordata come l’allieva di Duchande...»
Achab chinò il capo. «Cazzo, anche qui si finisce sempre a parlare...»
La donna scattò con velocità incredibile e, afferrando il bastone davanti a lei, si alzò leggermente: mise un piede davanti a sé e mentre la pianta del piede batteva in terra in contemporanea il bastone calava sulla testa di Achab. Il grido di battaglia di Machiko si fuse con il grido di dolore di Achab.
«Ma sei scema?» gridò lo Yautja.
«Sii sempre pronto», rispose lei. «Mentre pensavi alla vergogna passata, ecco che ne è arrivata una fresca.»
«Ma io...»
Un’altra bastonata rapidissima colpì lo Yautja al fianco. «Stai ancora pensando, Achab:
svuota la tua mente.»
«Ringrazia che sei mia amica, perché se no...»
Un’altra bastonata. «Stai ancora pensando con la testa: devi lasciare al tuo corpo il compito di pensare.»
Machiko caricò un altro colpo che partì con grande velocità, ma stavolta con altrettanta velocità Achab raccolse il suo bastone e lo parò in aria. Il potente schiocco del legno contro il legno rimbombò per tutta la sala, mentre i due rimasero immobili a fissarsi.
La donna sorrise. «Vedi? Il tuo corpo sa pensare bene: sta a te ascoltarlo ed assecondarlo.»
Mentre li spiava, Scar si ritrovò a pensare al fatto che invece il suo corpo pensava male, e lui non sapeva opporgli resistenza. Il suo corpo voleva alcol e non aveva la forza di arginare quella sete profonda.
«Sei fortunata che sono mezzo ubriaco e assonnato», stava dicendo Achab. «Altrimenti ti farei vedere io...»
La donna rise. «A questo servono gli allenamenti: ad essere pronti quando non si è pronti. Se ti capitasse di dover affrontare un nemico quando sei in forma, nel pieno delle forze e concentrato, non ci sarebbero problemi. Purtroppo non capita quasi mai...»
Scar si allontanò lentamente, perché era tempo di continuare a cercare da bere. «Quando senti che stai per cedere, quello è il momento in cui comincia il tuo allenamento.» La voce della donna lo raggiunse vividamente e per un attimo pensò che si stesse rivolgendo a lui.
Il Predator rimase fermo, nel buio della sala. Davanti a lui una fioca luce stava lasciando scorgere una serie di bottiglie. Era sul punto di cedere e quindi, stando alla frase di Machiko, era esattamente in quel momento che avrebbe dovuto iniziare il suo allenamento, era esattamente in quel momento che doveva imporsi di resistere... Ma fu in quel momento che Scar capì di non avere alcuna speranza di resistere a se stesso... Non è facile essere uno Yautja senza onore in un mondo umano, continuava a ripetersi mentre si annullava.
(continua)