| Dal gruppo Facebook CRONISTORIA:
Fin dall'antichità alla marcia di Annibale (attraverso le Alpi n.d.r.) si riconobbe lo statuto dell'impresa eccezionale, con tutti gli elementi che caratterizzano l'eroismo epico. Cornelio Nepote, un biografo del I secolo a.C., paragona direttamente Annibale a Eracle, il solo che avrebbe superato le Alpi prima del Cartaginese. E anzi, il semidio aveva compiuto la traversata conducendo anch'egli degli animali, i buoi di Gerione, il gigante a tre teste che abitava le brume dell'Occidente. Per altri storici il risultato era una duratura conquista dell'ambiente montano attraverso l'elemento di civilizzazione delle strade. Essi avevano aggiunto addirittura la diffusione dell'ordine e della legge tra i barbari abitanti dei luoghi come elementi che trasformavano il passaggio delle Alpi in un viaggio mitologico proprio dei grandi eroi civilizzatori che le interpretazioni razionalistiche del mito credevano uomini divinizzati per i loro benefici all'umanità: Eracle appunto per l'Occidente, dove era venerato perfino nel mondo fenicio che lo assimilava a Melqart, e Dioniso per l'Oriente.
Ma anche Annibale, «aveva sterminato gli alpigiani che tentavano di sbarrargli il passo, aveva aperto varchi e costruito strade, facendo sì che un elefante equipaggiato potesse procedere dove prima un uomo solo senza armi riusciva ad arrampicarsi a stento». Con questi richiami mitologici il suo viaggio acquistava contorni leggendari e diventava speculare a quello di Alessandro Magno, il quale dopo le vittorie militari aveva cominciato una serie di marce di conquista nell'Oriente persiano che si era ben presto confusa con il mito. È quindi normale che a leggere la narrazione nel più “epico” degli storici romani, Tito Livio (XXI, 32), la marcia di Annibale si colori di tinte leggendarie ed eroiche. E, come in ogni racconto epico che si rispetti, l'eroe si scontra con degli antagonisti - siano essi umani o elementi della natura. Così l'eroe incontra prima gli uomini, che sono raffigurati secondo lo stereotipo del barbaro, in un ambiente ostile oggetto di dicerie e leggende. Allora, benché i Cartaginesi se ne fossero già formata un'idea in base al sentito dire, che di solito ingrandisce oltre il vero ciò che non si conosce, tuttavia l'altezza delle montagne vista da vicino e le nevi che quasi si confondevano con il cielo, le rozze abitazioni poste sulle rocce, il bestiame minuto e da soma aggranchito dal freddo, gli uomini rozzi che lunghi avevano i capelli e le barbe, gli esseri animati e inanimati tutti irrigiditi dal gelo e ogni altro fenomeno più orribile a vedersi che a dirsi rinnovavano il terrore.
L'eroe viaggiatore supera queste presenze oscure e inquietanti, che spesso agiscono dall'alto facendo rotolare dei massi sopra i suoi uomini, con il ricorso al valore e alle armi che meglio conosce, l'inganno e l'insidia: e così, mentre accetta ostaggi e profferte di amicizia, schiera l'esercito come se dovesse passare tra gente ostile. Ma egli non si limita a usare la spada: opera anche con la civiltà delle leggi, perché come già Eracle anch'egli impone una soluzione pacifica e razionale nella contesa che divideva i due fratelli pretendenti al trono degli Allobrogi. Quando viene meno la minaccia dei barbari ecco che, al valico, le rocce, le nevi e i ghiacci sembrano diventare quasi forze attive della natura che l'eroe può vincere solo con ritrovati fuori del comune. E quindi - proprio in corrispondenza con il punto in cui Polibio ricorda lo sforzo dei soldati che avevano dovuto scavare un sentiero per sé e per gli elefanti - ci imbattiamo nel celebre, sconcertante e quasi leggendario episodio dell'aceto. Racconta infatti Tito Livio che i Cartaginesi lavorarono per quattro giorni a sgretolare le rocce che impedivano loro il cammino servendosi di un fuoco continuo alimentato da una enorme quantità di legname e dell'aceto che versavano sopra le rocce arroventate.
A parte questo singolare uso dell'aceto, testimoniato da altre fonti e comunque materia prima presente in abbondanza presso gli eserciti antichi (anche sotto forma di vino inacidito), lo storico ha trasformato una pratica di pulitura del terreno - in cui entrava anche un elemento troppo comune come l'acqua, che difatti Livio non ricorda - in un singolare esperimento chimico che forse funzionava con piccole quantità di materiale, ma non certo con le rocce alpine. Non è casuale che il passo successivo, compiuto da un poeta epico del I secolo d.C., Silio Italico, autore del magniloquente Le guerre puniche, sia di riprendere il racconto ormai leggendario di Tito Livio e di colorarlo con tinte preromantiche, adatte a un gusto quasi barocco per l'estremo, in cui la natura si anima e si impone come il vero rivale di Annibale: ecco allora il gigantesco, il lugubre, il macabro con «la Terra che sale fino al cielo e lo nasconde con la sua ombra», i luoghi che conoscono solo una e terribile stagione, l'orrore delle valanghe che inghiottono gli uomini nelle loro fauci, il ghiaccio implacabile che solo il sangue caldo dei guerrieri morenti sa sciogliere.
Adesso Annibale è pronto a irrompere nella Pianura Padana come nemico dei Romani circondato da un'aura di eroismo: è pronto a sconfiggere le legioni in due battaglie combattute presso altrettanti affluenti del Po, il Ticino e il Trebbia, prima della fine di quell'anno 218. È pronto a compiere un'altra traversata, quella degli Appennini, tra sacrifici e perdite paragonabili a quelle delle Alpi, e soprattutto, l'anno successivo, a distruggere in un'imboscata - almeno così i Romani giustificarono quello che è un autentico disastro militare - buona parte delle legioni del console Gaio Flaminio al Trasimeno. Le Alpi sono la definitiva consacrazione del figlio di Amilcare Barca a eroe epico, e a rivale per antonomasia del popolo romano.
Massimo Bocchiola, Marco Santori - Visioni e freddi calcoli - in "La battaglia di Canne"
|